Lo scorso 30 aprile, in occasione dell’incontro tra impresa e politica presso la sede CAV, ho avuto il piacere di esporre ai ministri Di Maio e D’Incà, le necessità del mondo dell’industria e in particolare del settore delle bevande alcoliche. In cima alla lista indico i seguenti punti: certezza del diritto, fiscalità equa, semplificazione delle norme, gestione efficace del sistema Italia con tutela a livello internazionale. Innanzitutto, voglio richiamare l’attenzione sul mancato rispetto in ambito internazionale dei marchi, dei brevetti e dello stesso Made in Italy. Non si contano infatti le produzioni in molti, troppi paesi, di merci Italian sounding che non rispettano le denominazioni di origine e danneggiano le imprese italiane. Le contraffazioni avvengono anche all’interno della EU e la stessa EU non protegge adeguatamente le nostre denominazioni d’origine.
È necessaria quindi tanto una tutela effettiva quanto una politica di valorizzazione del prodotto italiano, non solo come marchio, ma come status elettivo: dall’agroalimentare, alla tecnologia, ad ogni comparto d’eccellenza. Vanno create procedure di controllo, collegate ad una certificazione, riconosciuta a livello internazionale nel segno della correlazione: prodotto italiano = prodotto di qualità. In alcuni paesi – i soliti noti – sono in vigore politiche protezionistiche con dazi importanti e senza reciprocità, quando i prodotti che hanno tale origine arrivano in EU. Molti di questi paesi non riconoscono le certificazioni di qualità italiane ed europee, rendendo di fatto difficoltoso l’ingresso dei nostri prodotti in quei mercati. Vengono richiesti certificati di esenzione da salmonella, stafilococco o piombo, sul vino e sulla grappa!
La giustizia non è efficiente e il costo di una causa civile, troppe volte, è superiore al beneficio che se ne consegue. Si rischia che le proprie ragioni vengano riconosciute o meno, non in base al diritto, ma al tempo a disposizione dei giudici per studiare le cause.
Le aziende straniere sanno fare sistema, fanno shopping in Italia e poi riportano il know-how nel territorio d’appartenenza. Non solo, siamo spesso esposti al “fuoco amico” di alcune aziende italiane che fanno produrre fuori dall’Italia, per poi portare i prodotti in patria e applicare con artifizi più o meno legali l’etichetta Made in Italy, rivendendoli ovunque nel mondo, anche in paesi, dove, ironia della sorte, pagano dazi altissimi. Riportare la manifattura in Italia sarebbe semplicissimo, riducendo il cuneo fiscale, in modo da rendere antieconomica la produzione all’estero. Questo intervento potrebbe essere limitato nel tempo (almeno un quinquennio) oppure avere natura stabile, ma si configurerebbe in ogni caso come l’unico modo indolore per raggiungere l’obiettivo. Aggiungo che ci sono molti metodi per farlo, incluso un utilizzo allargato del welfare. Dal punto di vista finanziario ed economico manca un sistema di rating internazionale per le imprese. Moody’s e consorelle usano solo parametri finanziari e non economici per le valutazioni e non offrono un servizio adeguato. Segnalo che, al di fuori della EU, i bilanci non sono quasi mai pubblici, creando disparità con le aziende comunitarie, giustamente tenute alla trasparenza. Rimanendo in ambito nazionale, un’altra stortura, da me segnalata in passato, è il contenuto del Decreto Dignità che vieta la riassunzione periodica dei lavoratori. L’elenco dei lavori stagionali è obsoleto e ci viene impedito di avere personale preparato in maniera continuativa, per i periodi in cui esso è necessario.
In Italia l’export, che tiene a galla i nostri conti, è frutto esclusivo dell’intraprendenza delle aziende. Occorre creare un “sistema Italia” di filiera, per garantire il consumatore all’estero e per creare omogeneità nella distribuzione. È da sempre risaputo che l’ICE non svolge appieno il suo ruolo, ma non si è mai fatto nulla per adeguare l’ente alle esigenze delle aziende.
La semplificazione è uno dei paradossi italiani. Ad ogni cambio di governo si cerca di modificare l’insieme delle disposizioni preesistenti con il risultato di complicare vieppiù la matassa. Il nostro settore deve dar conto a 15 organismi di controllo e a un numero troppo elevato di enti per ottenere le autorizzazioni. Non solo, ci sono ancora molte norme incongruenti e obsolete, per esempio nel nostro settore vige l’impossibilità di comunicazione tra stabilimenti produttori di bevande alcoliche e cantine. L’evasione fiscale, in ambito agricolo, viaggia di pari passo con il lavoro nero.
Sarebbe opportuno renderlo meno conveniente, diminuendo da una parte l’imposizione contributiva e aumentando dall’altra sanzioni e pene. Aggiungo che, in generale, sarebbe necessario distribuire una parte di deducibilità dei costi al consumatore, affinché sia incentivato a chiedere sempre la fattura per ogni servizio. Al tempo stesso viene meno la certezza degli incentivi, che solo di rado vanno a chi veramente sa dare impulso all’economia. Sarebbero necessarie norme più semplici e di lunga durata, per erogare incentivi sulla base dei risultati conseguiti.
Concludo con il tema della formazione che è sempre più collegato all’economia e che si rivela un problema, malgrado nel nostro paese ci siano scuole d’eccellenza e grandi talenti. Manca però un sistema di collegamento tra università e imprese, sia per quanto riguarda lo sviluppo della ricerca su tematiche utili alle aziende, sia per quanto riguarda l’assunzione dei giovani. Mancano inoltre efficaci scuole di management, che insegnino ai giovani a fare i manager a 360° e ad affrontare tutte le svariate problematiche che la gestione di un’azienda comporta. Manca infine una scuola per formare manager pubblici, all’altezza delle sfide che l’Italia è tenuta ad affrontare.